Quando si parla di vino ecologico, indipendentemente dal fatto che se ne sia supporters o haters, sarebbe sciocco negare l’esistenza di cantine che, con il loro operato, hanno fatto attecchire il seme dell’ecologia, come veri e propri pionieri, dal nord al sud dell’Italia. Sto parlando di quelle cantine il cui nome, volenti o nolenti, è sulla bocca di chiunque provi sincera ammirazione verso questa metodologia di fare vino e, prima ancora, di abitare lo spazio con una posizione politica chiara, incapace di scendere a compromessi.
Non si tratta di risolvere la questione dicendosi di Destra o di Sinistra, ma di avere una visione rispettosa dell’ambiente produttivo (dalla vigna alla bottiglia, passando per la cantina), visione che nasce dal convincimento che la zona in cui il viticoltore ha piantato il vigneto, ed edificato la cantina, sia dotata di un genius loci unico e non replicabile. Ecco che allora il vignaiolo si sente prima di tutto custode, di quel genius loci, e conseguentemente cerchi di rappresentarlo gustativamente nel modo più fedele possibile, collaborando con la natura e non imponendole la sua visione.
Chiedo scusa per l’ampia digressione ma era più che mai necessaria quando si parla di cantine come La Stoppa, una realtà creata nella seconda metà del XIX secolo, una cinquantina di chilometri a sud dell’Oltrepò Pavese, dall’Avvocato Giancarlo Ageno, e acquistata dalla famiglia Pantaleoni nel 1973. A partirte dagli anni ’90, la cantina è guidata dall’instancabile Elena Pantaleoni, affiancata e consigliata da Giulio Armani.
A La Stoppa si segue il metodo biologico certificato da Suolo e Salute, che prevede la crescita delle piante in autonomia, uso esclusivo di Rame e Zolfo, in dosi quasi troppo basse per essere credibili, e lavoro sulle singole viti (potatura, legatura, spollonatura, cimatura e raccolta) interamente manuale. Non a caso ho fatto riferimento al genius loci a inizio post, perché bastarono pochissimi anni per capire che, se a La Stoppa lo si voleva rispettare, era necessario impegnarsi nella coltivazione delle varietà d’uva locali: Barbera e Bonarda per le uve rosse, Malvasia di Candia Aromatica, Ortrugo e Trebbiano per le bianche.
Un rispetto così ferreo dell’ecosistema non poteva che portare, anche in cantina, al medesimo approccio rispettoso di quanto vendemmiato, partendo dalle lunghe macerazioni in grado di estrarre fino all’ultima oncia di verità, di ogni singola vendemmia, e dalle fermentazioni spontanee, con lieviti indigeni, senza controllo della temperatura. Non sarebbe nemmeno necessario ricordare che vini così rifiutano l’addizione ci sostanze come acetaldeide (per stabilizzare i mosti), e distano anni luce da pratiche di concentrazione (osmosi inversa), addizione di tannini in polvere (per stabilizzare il vino dall’ossidazione ed eliminare gli odori sgradevoli dei composti solforati) o di acidi (malico, citrico o tartarico…di solito mixati in un’unica miscela) per regalare maggior freschezza. L’unico segreto per stabilizzare i vini, soprattutto le riserve, è fargli fare un lungo periodo di affinamento in tini e botti di legno e, successivamente, in bottiglia.
Uno dei fiori all’occhiello della cantina è un vino bianco, l’Ageno, una Malvasia di Candia Aromatica in purezza, dedicata al fondatore della cantina che, come già detto, risponde al nome di Giovanni Ageno. Le 25.000 bottiglie annue prodotte nascono in una vigna, di circa 25 anni, lasciata inerbire spontaneamente, senza nessun tipo di concimazione (nemmeno quella organica). In cantina le uve macerano per 4 mesi in vasche d’acciaio o cemento e, dopo la fermentazione spontanea in tini di legno da 40 ettolitri, il mosto viene travasato senza filtrazione, né aggiunta di anidride solforosa, in bottiglia, dove affinerà il tempo che Elena e Giulio riterranno opportuno.
L’annata 2020, bevuta qualche giorno fa, ha sfoggiato il suo tradizionale colore aranciato, dalla delicatissima consistenza, con un ventaglio di sentori che sarebbe inutile elencare, visto che si tratta di un vino ottenuto di vitigno aromatico, anche se il te alla pesca, la camomilla e un tocco di volatile si sono presi in fretta la scena. Il palato si è sviluppato alternando la dolcezza del vitigno (era possibile percepire anche una punta di fruttosio) e l’acidità, appena accennata, della volatile, con un piccolissimo ma soddisfacente morso tannico; il tutto mentre la via retrolfattiva squadernava con impressionante corrispondenza i profumi principali che ho evidenziato, e che hanno accompagnato il sorso a un finale a metà strada tra Giovanni Pierluigi da Palestrina e i Pink Floyd.
RATING: ⭐⭐⭐⭐⭐
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