La riscoperta della produzione vitivinicola sull’Etna rappresenta probabilmente l’evento mediaticamente più rilevante degli ultimi 20-30 anni di storia del vino italiano. I terreni vulcanici d’altura sono tornati ad essere la culla che ospita la coltivazione di vitigni come i due Nerello (Mascalese e Cappuccio) il Carricante e la Minnella, dando vita a vini che hanno impiegato davvero poco a imporsi all’attenzione dei palati più esigenti e aggiornati.
Tra i protagonisti di questa ‘nouvelle vague’ etnea la cantina Calabretta riveste un ruolo apparentemente defilato, lontano dai riflettori e dalle mode del momento, ma decisamente di alto profilo. D’altro canto si tratta di una cantina nata agli inizi del ‘900 da Gaetano e sua moglie Anna, sviluppata nel secondo dopoguerra dal figlio Salvatore con la moglie Concetta, e giunta negli anni ’90 nelle mani del nipote Massimo e il bisnipote Massimiliano Calabretta.
Nei terreni di proprietà, che vanno da un’altitudine di 680 a oltre 900 metri sul livello del mare, sono ospitate piante su piede franco per la maggior parte, con alcuni vigneti ultracentenari ad alberello. In vigna si segue un approccio naturale, con un grande lavoro manuale sulle viti e sui terreni, ed un ricorso alla meccanica del trattore e della motozappa solo quando strettamente necessario. Anche il contrasto alle malattie più dannose per la vite (Peronospera, Oidio e Fillosera) viene fatto senza utilizzo di prodotti chimici, eccetto una quantità omeopatica di zolfo (sul terreno) e verderame, con un grande lavoro di potature preventive, per consentire la giusta areazione delle viti, e il mantenimento di un microclima salubre e asciutto.
Anche se la cantina è celebre per i suoi vini rossi, non disdegna la produzione di bianchi, come questo Carricante, ottenuto da uve vendemmiate manualmente verso la prima decade di ottobre. Una volta in cantina le uve vengono diraspate e, quindi, macerate brevemente a freddo, prima della delicata pigiatura e della fermentazione spontanea, per mezzo di lieviti indigeni, in tini d’acciaio. Il vino, dopo la svinatura, affina per due anni, sempre in acciaio, e per altri otto mesi in bottiglia, prima della commercializzazione.
L’annata 2018 sfoggia un colore paglierino pieno con un ventaglio olfattivo che si apre su note di cedro, lime, kumquat ed elicriso, seguite da albicocca disidratata, biancospino, conchiglia bruciata e selce umida, con echi conclusivi lievemente affumicati. Il palato mostra sin da subito l’alternanza tra una morbida sensazione avvolgente e la freschezza agrumata arricchite, sullo sfondo, dalla componente sapido-minerale; il tutto mentre ritornano gli agrumi, la conchiglia e il fumé che accompagnano il sorso sino a una chiusura di buona lunghezza.
Punteggio: 89/100
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