Ci sono alcuni produttori di vino verso i quali confesso di nutrire una aprioristica simpatia come nel caso di Ciro Picariello, i cui vini ho imparato ad apprezzare nel corso degli anni. Il motivo della simpatia è legato alla capacità di Ciro di aver dato vita a vini a base Fiano partendo da una formazione pressoché inesistente, e facendo pian piano esperienza sulla sua pelle, in meno di 20 anni di storia. Eh già, perché Ciro, fino al 2004, lavorava come geometra e comincerà ad appassionarsi alla produzione vitivinicola, prima ancora di dedicarvisi, soltanto nell’ultima decade del1900, quando la moglie eredita una porzione dell’azienda agricola familiare a Summonote, in provincia di Avellino. Si trattava di un insieme composito di terreni su cui veniva praticata la rotazione delle culture unitamente a una forma di agricoltura mista (noccioleti, vitigni, alberi da frutto) che garantiva i vecchi contadini del luogo dal rischio di perdere un intero raccolto, come nel caso delle aziende monocolturali.
Le vigne del luogo erano tutte a bacca rossa e la produzione era destinata al consumo familiare o, al massimo, locale, ma questo non impedì a Ciro d’iniziare a sperimentare su una parte incolta di noccioleto, la parcella 906, da cui oggi viene prodotto il vino più rappresentativo della cantina. Proprio da quella parcella cominciò il lavoro di eradicazione delle nocciole e della piantumazione di viti a bacca bianca di Fiano; l’inizio un percorso di sperimentazione che corrisponde anche all’abbandono del precedente lavoro. Questo salto nel vuoto richiede sacrifici e regala poche soddisfazioni, e anche se la cantina si espande fino a coprire quattro ettari di terreno, il vino prodotto non suscita l’emozione che Ciro ricerca, a causa della sua eccessiva durezza e scarsa immediatezza di beva. La svolta avviene con l’annata 2007 e la sua estate siccitosa che porta ad anticipare di 10 giorni la vendemmia in una delle due parcelle di proprietà, quella di Montefredane (10 chilometri a est di Summonte). Il passo successivo fu quello di capire che quelle masse, così pronte, morbide e immediate, dovevano entrare a far parte del vino di Ciro che, da allora venne prodotto mescolando le uve di Montefredane e quelle di Summonte.
Oggi la ricetta non è cambiata e il suo Fiano di Avellino DOCG nasce mescolando le uve grossomodo in parti uguali, anche se l’esatta percentuale non la conosce, forse, nemmeno Ciro che si affida alla tradizione tramandatagli dagli antichi viticoltori del luogo, e al suo insindacabile gusto. Quello che è possibile dire è che, una volta raccolte le uve, da entrambe le parcelle, vengono inviate alla minuscola cantina dove il mosto, ottenuto dopo una delicata pigiatura, viene raffreddato a 8° C per 24 ore. La fermentazione dura due mesi e avviene in serbatoi di acciaio con serpentine interne che dopo averla fatta partire a una temperatura tra i 16 e i 18 gradi, la portano avanti abbassandola a 12/13 gradi. Servono infine 10 mesi di affinamento in acciaio inox, sulle fecce fini, con frequenti batonnages e, dopo l’imbottigliamento, altri sei mesi di riposo in vetro, prima della commercializzazione.
L’annata 2020 sfoggia un colore paglierino tenue, con qualche striatura verdolina, e un ventaglio olfattivo che si apre su note di nespola, pesca bianca, nocciola tostata e scorza di lime, seguite da fiore di bosso, alloro ed eucalipto, con echi conclusivi affumicati e d’idrocarburo. Il palato alterna deliziosamente la componente morbida a quella fresca/citrica, con un contorno di sapidità/minerale e un accenno di piccantezza da pepe bianco: il tutto arricchito dal ritorno della frutta gialla e dell’idrocarburo che accompagnano il sorso fino a una chiusura di ottima lunghezza.
Punteggio: 88/100
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