Conosco i vini di Denis Montanar da almeno 15 anni e ricordo con precisione il suo primo vino assaggiato: il Refosco Scodovacca, che mi pare non si chiamasse ancora così. Il primo decennio del nuovo secolo era un periodo in cui ero ancora totalmente rapito dai vini “confezionati” con l’utilizzo della barrique. Non ero un estremista (gli estremi, in generale, non mi sono mai piaciuti) ma una botte piccola, magari di Alliers, utilizzata con la giusta misura, esercitava ai miei occhi un fascino innegabile.
Ciononostante cominciavo a interessarmi alla produzione di vini autodefinitisi naturali (aggettivo a cui preferisco il più politicizzante “ecologici”) con i loro pregi e i loro difetti. Uno degli aspetti che meno apprezzavo era il raggiungimento di un tasso d acidità volatile tale per cui alcuni vini avrebbero potuto essere definiti degli splendidi aceti e niente più.
Tutto questo per dire che quel Refosco dal peduncolo rosso fu la classica carta in grado di sparigliare il mazzo.
La ragione?
Molto semplice: quel vino aveva un tasso di volatile talmente ben gestito da spingermi, da quel giorno, a ricercare questo parametro in ogni vino ecologico che bevevo. Solo tempo dopo seppi che il produttore, Denis Montanar, nel suo Borgo (in Friulano “Borc”) Dodòn, quando si trovava al cospetto di vasche in vetroresina di vini con una volatile eccessiva, non si faceva problemi a spostarne il contenuto nella sua acetaia, per produrvi dell’aceto da urlo.
Ma parlare di Denis solo per questa ragione sarebbe guardare il dito che indica la luna e non la luna stessa, perché Denis ha una sensibilità, nei confronti delle sue piante, fuori dal comune. Ha aderito al disciplinare Biologico dal 1996, è passato a quello biodinamico e, come se non bastasse, ha accettato le ferree regole produttive imposte dal protocollo del gruppo “Renaissance du Terroir”, gruppo fondato nientemeno che dal celeberrimo Nicolas Joly (per chi non lo conoscesse suggerisco una ricerca online e l’assaggio del suo “Clos de la Coulée de Serrant” con parecchi anni sulle spalle).
Le terre lavorate da Denis sono terre in cui vige la policultura: mais, orzo, farro, birra, insaccati ottenuti da un singolo maiale annualmente allevato, insomma, un vero ritorno alle radici del mestiere agricolo. Le terre in cui insistono le uve sono state inizialmente coltivate dal bisnonno di Denis, Lino, per poi passare al nonno e, dal nonno, in affitto, a Denis stesso, che le lavora con l’ausilio del padre Claudio e del figlio Carlo.
Nel frattempo la tenuta ha aggiunto altri 10 ettari di vigneto piantati con la selezione massale di vigne di oltre 100 anni di età, nelle parcelle di Dodon, Sandrigo e Scodovacca. L’approccio di base, come ho accennato, si può riassumere nella filosofia appresa dal chimico Prof. Bricchi, il quale ebbe a dire a Denis: “la pianta se non la si aiuta si aiuta da sé, e le sostanze aromatiche che produce non sono prodotti di scarto, ma fanno parte del metabolismo primario, quello che la pianta mette in atto per sopravvivere e riprodursi”.
Per agevolare la riuscita di questa filosofia Denis si è reso conto che, di 6 anni in 6 anni, le sue piante andavano incontro a produzioni di uve di scarsa qualità con vendemmie piuttosto critiche. È per questo motivo che, a partire dal 2002, Denis ogni 5 anni lascia a riposo le viti, dopo la potatura invernale e il sovescio.
Tra i vini prodotti ho avuto la recente opportunità di assaggiare il Merlot Dodòn 2015, un Merlot che nasce su 2 ettari di terreni limosi, sabbiosi e argillosi, piantati con 6500 viti per ettaro che producono circa un chilogrammo di uva per pianta. Dopo la selezione in vigneto e l’arrivo in cantina, le uve subiscono la diraspatura, una macerazione di 6 giorni e la fermentazione spontanea in tini di vetroresina. L’affinamento del vino ottenuto avverrà in tini di cemento e durerà un anno, al termine del quale il vino sarà pronto per l’imbottigliamento senza chiarifica o filtrazione.
Una volta aperta la bottiglia, e lasciata ossigenarsi per un paio d’ore, il vino ha svelato un colore rubino molto intenso con un’unghia aranciata, quasi a voler mostrare fin da subito la sua essenza da Giano Bifronte. Il naso saltava con incredibile agilità dalla prugna cotta all’arancia sanguinella, dall’amarena al ribes rosso, dal pot pourri di violetta alla Rosa Canina, dal cuoio ai richiami ematici, dal tabacco fire cured a quello Balkan Sobranie, lasciando una sensazione di piacevole Babele olfattiva, innervata intorno a una delicatissima acidità volatile.
Se il naso, da solo, portava a perdersi in infinite congetture, invoglianti al sorso, il palato era il luogo in cui queste giustapposizioni trovavano una risoluzione omogenea grazie agli equilibri tattili tra morbidezza e freschezza, tannini, di razza, appena accennati e sapidità minerale, il tutto nuovamente sorretto dal medesimo trait d’union individuato all’olfatto: la lieve e golosa acidità volatile.
Inutile aggiungere che il ritorno retrolfattivo è stato a dir poco impressionante, lasciando il Gran Finale al frutto rosso e alla volatile, persistenti per lungo tempo.
In definitiva un vino che supera le aspettative in modo quasi imbarazzante, rischiando di non essere preso nella giusta considerazione, vista la qualità espressa, proprio perché vini come questo costano, mediamente, almeno 10/15 Euro in più. È proprio per questo che il mio animo di commerciale consulente mi porta a dire: ma perché questo vino non viene proposto, a partire dal produttore, a un prezzo sorgente maggiore?
RATING: ⭐⭐⭐⭐
PREZZO: €
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