Quando si parla di Josko (Francesco) Gravner si tende a riassumere l’opera di quest’uomo associandola ai celebri contenitori di affinamento da lui utilizzati da quasi 20 anni: le anfore georgiane (i qvevri). In realtà la sua storia è molto più affascinante e anche molto più lunga visto che la sua cantina è nata molto prima di lui, nel 1901, quando la sua famiglia acquistò una casa e 2,5 ettari di vigneto ad Oslavia, nel Collio Goriziano, al confine con la Slovenia. Quella casa, l’unica rimasta in piedi al termine della prima guerra mondiale, fungeva anche da cantina e ha continuato a farlo fino ad oggi, nonostante i danneggiamenti, riparati, del terremoto del Friuli del 1980.
In questa casa Josko è cresciuto e ha cominciato a sviluppare le sue prime concezioni nei confronti delle vigne e dei vini quasi in antitesi con quelle naturali e olistiche che suo padre e suo zio aveva portato avanti fino agli anni ’70. A questo proposito vale la pena di ricordare che i vini di Josko, soprattutto negli anni ’80 e ’90, oltre ad essere prodotti con tutti i più moderni ritrovati tecnici, chimici e scientifici, erano vini incredibilmente buoni. Proprio per questo motivo risultò quasi incomprensibile la sua scelta, alla fine degli anni ’90, di rinnegare quanto fatto fino a quel momento, alla ricerca di una viticoltura più sincera ed espressiva di quei terreni e di quelle vigne, scegliendo di produrre vini che, soprattutto all’inizio, furono duramente criticati dalle guide di settore.
Ma in cosa consisteva la “rivoluzione Gravner”? Innanzi tutto Josko, pur essendone l’ideatore e il principale esponente, cercò fin da subito di fare gioco di squadra coinvolgendo altri viticoltori della zona in questo progetto, nomi iconici del calibro di Radikon, Kante, Princic e molti altri. In secondo luogo la sua filosofia produttiva, oggi interamente biodinamica, ebbe una evoluzione nel corso del tempo partendo dalla scelta di adottare le anfore come recipienti di vinificazione e macerazione dei vini e arrivando, nel corso del tempo, alla ricreazione nei suoi 18 ettari di vigneto di un ecosistema ricco e variegato, con la piantumazione di alberi da frutta e la creazione di stagni (preziose sorgenti di vita biologica). Lo step più recente di questo percorso è stata la scelta, a partire dal 2016, di produrre esclusivamente vini a base Ribolla o Pignolo, i due vitigni storici della zona, un’altra decisione anti-commerciale dettata solo da quel costante desiderio di ricerca della verità enologica che Gravner rivendica con orgoglio.
Uno degli ultimi capolavorii a scomparire potrebbe essere il Rujno, un vino dal lunghissimo affinamento composto da Merlot e da un piccolo saldo di Cabernet Sauvignon (5%), coltivati assieme nel vigneto Hum, piantato nel 1966, e, nel caso della vendemmia 2003, raccolti nella seconda metà di settembre. Essendo la fermentazione in anfora una scelta che è entrata a pieno regime soltanto nel 2006, questo vino non ne ha usufruito e ha fermentato spontaneamente sulle bucce in tini aperti per cinque settimane senza controllo della temperatura. Ci sono voluti poi sette anni in di affinamento botti di rovere e altri sette in bottiglia prima della sua commercializzazione.
Il millesimo in questione sfoggia un colore rubino intenso, con un ventaglio olfattivo che si apre su note di sciroppo d’amarena, mora di gelso, concentrato di pomodoro e carrubo, seguite da arancia tarocco, pot pourri, pepe nero e vinile, con echi conclusivi di humus, sigaro trinciato ed empireumatici di eccellente articolazione. Il palato, pur nella sua innegabile ampiezza e generosità, incarna nella maniera più esaustiva il concetto di equilibrio, grazie al contrappeso della freschezza balsamica, di una punta di piccantezza da pepe nero e di un tannino oramai totalmente levigato e integrato; il tutto accompagnato dal ritorno della frutta rossa, della spezia e dell’empireumatico che persistono a lungo anche dopo la succosa chiusura.
Punteggio: 95/100
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